La menzogna della verità

"Il contenuto del discorso che lo spirito tiene da se stesso e intorno a se stesso è dunque l’inversione di tutti i concetti e di tutte le realtà; è l’inganno universale di se stesso e degli altri, e l’inverecondia del proferirlo è per l’appunto la verità piú grande. "
Hegel, Fenomenologia dello spirito

Chi parla della verità? Il Filosofo la segue con il lanternino, ma porta scritto nel suo nome un amore impossibile. Lo scienziato se ne propizia la purezza con un camice immacolato, ma anch'egli dovrà rendere i conti di ciò che fa - solo a fatica gli si farà ammettere che l'epistemologia non è essa stessa una scienza, è che lo "statuto epistemologico" di ciò che egli fa, piuttosto che un patto d'acciaio, firmato con la realtà stessa e le sue leggi immutabili, è una sorta di fragile tregua con il dubbio.
Non siamo tuttavia venuti a ripetere la sferzata scettica: diamola per assodata, rimandiamo il gentile lettore ai testi di una tradizione ormai secolare, quella di una contro-tradizione che si fa da se il contropelo.
Piuttosto, vogliamo entrare in quello spazio di mezzo che separa la verità del suo oggetto. Come ci si muove in questo spazio? Si deve prestare molta attenzione: come quando si percorrono le quinte del  teatro, ci si muove su un terreno che per svolgere la sua funzione deve travisarsi, essere preso per uno spazio di tutt'altro genere, e dunque non esistere come se stesso (come una mappa, disse un saggio, rispetto al territorio).
Sia chiaro che non siamo quì, né io, e spero neppure voi (e in concreto non lo siamo, e non esiste un "quì") per fare dell'illuminismo, del quale pure siamo nipoti: chi inizia parlando della verità segnala, soprattutto, di non darla per scontata. I generi di discorso sulla verità che usualmente si frequentano sono di tre tipi (ma si potrebbero elencarne di più, o di meno. Dico tre perché penso mi bastino a dire ciò che ho da dire, e poi per lunga tradizione). Il primo è la denuncia  della falsità - di una falsità specifica, di qualcuno, o qualcosa, o di una falsità più generale, dei tempi o dei costumi - che serve ad aprire una strada, a preparare la tabula rasa sulla quale costruire qualcosa. A conquistarsi uno spazio sul quale poi disporre strategicamente le proprie verità. Di un tale spazio non abbiamo affatto bisogno: disperiamo ormai da tempo di prendere parte all'epica dei costruttori di città, alla mistica positiva dei teoremi - guardò già dei più grandi qualcuno nell'abisso della sfondatezza - eccetera. L'approccio post-moderno, con la sua tattica di riemersioni e recuperi, ne costituisce il rovescio, ma anche l'emicrania: che fatica, e che sfatica, dover smontare ogni parola, ogni frase, nella frase successiva, dover tematizzare la metrica, dover ritmare la semantica, e così via: si parla dunque della verità per mostrarla come menzogna, ma si demolisce al contempo la nozione di "menzogna", perché non vi è alcun rovescio, al quale contrapporla. E questo è il secondo approccio.
Si può fare, certo che si può, ma per arrivare dove? E perché ci arrivi esattamente chi? Non pochi fra quelli che parlano, e parlano, finiscono per parlare all'infinito, per parlare del parlare, per usare come soggetto "il discorso", e farlo persino da fuori, da un fuori che qualcun altro raccoglierà in un "discorso", così che un'antitradizione prenda piede - un piede instabile, trocaico - nella forma di una denuncia continua e costante rispetto al fatto semplice di essere sempre quì, rozzamente chiusi dentro un corpo e una pelle, e addirittura pensanti pensieri, da versare in parole, e così via.
Il limite della tattica - parliamo la lingua del gesuita De Certeau, che fa del significato un campo di guerra, e all'occasione di guerriglia - sta nel suo non raccogliere mai i suoi frutti. Il terrorista della situazione - il debordiano debordante - non può reclamare per se nessuna conquista, e come fa ben vedere il destino televisivo del paese del quale parlo l'idioma - dagli autoctoni semidimenticato - non può neppure quasi scegliersi un campo, un lato. Si tratta, piuttosto, di derubare i cadaveri dei caduti, di sabotare le salmerie, di erigere in piena trincea piccoli santuari votivi, eccetera, ovvero di pervertire e trasformare il senso nel luogo e nel tempo del suo venire alla luce, di sviarne gli assi, di sbrindellarne la rete, facendo riemergere antichi ricordi.
Il terzo modo, è quello di chi fa da mediatore, e a ogni discorso ne appone un altro, di traverso, capace di far apparire a un tratto l'oggetto e i termini che lo descrivono, come oggetti di un discorso ulteriore. Ma questa ulteriorità non è che un inganno: l'oggetto, doppiamente rimosso, fa dimenticare la questione originaria rispetto al suo statuto, non resta che il discorso del discorso, e nulla lo salva dall'affondare in un discorso ulteriore, salvo forse la mancanza di tempo e di energie, e l'istinto di conservazione che ci avverte di non percorrere a lungo la strada che si inoltra sulle altezze del pensiero che pensa il pensiero, che pensa il pensiero, e così via, e via in eterno. Al di sopra delle nuvole che circondano le vette di questa ascesa, va detto, sembra albeggiare la completezza di un'autocoscienza che recuperi la realtà nel suo complesso, l'autocoscienza dell'idealismo tedesco, la chiusura del "sistema". Ma già anch'essa è stata denunciata come delirio, l'effetto dell'affaticamento e della scarsità d'aria, simile agli scarabocchi del matematico che cerchi di dimostrare, graffiando il muro della sua cella, di essere in effetti già libero.
Non dovremmo forse essere contenti, che la retorica crudele del progresso sia infine abbandonata? Che la marcia verso la verità non abbia più la forma dell'eroica ricerca, progressiva, collettiva, scientifica, e neppure quella del grande disvelamento, della caduta delle antiche menzogne? Che cosa è più la verità? Un rumore di fondo, impronunciabile, al di sotto del moto perpetuo della menzogna utile, colorata, divertente. La realtà ci sta attorno, un miliardo di teste, lingue numerose quanto i granelli di sabbia di una spiaggia dall'estensione interminabile, ognuna con il suo idioma. Chi si azzardasse anche solo a pensare a una sintesi impazzirebbe. E infatti ognuno, ogni giorno, ringrazia la Macchina. Si intenda: ora che il Cyberpunk è già roba vecchia, nessuno osi pronunciare una condanna! Si smentirebbe nell'atto stesso del suo giudicare. Solo la macchina può contare e dirimere, secondo logiche semplici, ma iterative, la vastità di ciò che è, e che ci è ignoto. Essa diviene complessa, e ancora e sempre più complessa, affogando la verità - concetto obsoleto - nella fluidodinamica dei dati, nelle complessità dell'assiomatica, la quale non dice nulla, se non che c'è chi dice qualcosa, e lo dice così e così.
Ma anche, la verità ci sta davanti come silenzio, come cessazione del discorso che vuole dirla, come realtà non-separata nei suoi momenti soggettivo e oggettivo, come mente che riconosce se stessa nel momento della propria vacuità, originaria, prima di ogni pensiero. E questa è la via dello Zen, che è il Satori. Di questo non si può propriamente parlare: è esperienza, della quale non si può dire neppure chi la esperisca, o perché, ma solo indicarne la necessità a partire dal labirinto contorcersi di un "tutto il resto" che è tuttavia visibile solo a chi ne sia escluso. A questi si può dire: esci! La casa brucia! Ma per l'illuminato non vi sarà fuoco, né casa, e ogni parola intorno all'illuminazione avrà perso senso, insieme alla distinzione stessa fra l'illuminazione e il suo contrario. Per questo si dice: "Chi è colui salvo dall'illusione, Risvegliato dal sogno della vita? Se la natura originaria di ogni cosa è vuota, allora non si può neanche dire che sia vuota. Ti dico: chi cerca di definire la realtà ultima, la Realizzazione, e con essa degli atti meritori per ottenerla, lo fa perché è ancora in un'esistenza illusoria e in un sogno da cui destarsi". Ma per quelli che sono oltre questa soglia non ha senso parlare. Ad essi va soltanto tutto il mio amore.
Quindi, eccoci. Al di quà dell'illuminazione, nel mezzo del rizomatico proliferare dei codici che si fanno e si disfanno, divorandosi reciprocamente, eccoci nel pieno flusso del samsara. Ripiombati, ironicamente, all'età dei fantasmi e degli dèi, degli imperi allucinati e della religiosità spiritista. E ognuno ci faccia i conti, da capo, dal momento che non c'è misura, ma solo effetto, e tutto, dagli articoli di giornale alle dichiarazioni politiche, dalle cronache alle analisi, non è che incantesimo, diretto a un campo di efficacia piuttosto che a un "qualcosa" di cui si possa infine dire Il Vero.
Lo dico, questo, senza tristezza: l'intelletto non ha più posto, come non ne hanno i corpi. I poeti sono del tutto superflui, dal momento che l'inumano governa. I più avanzati guru del presente insegnano che "la mente produce il corpo" né più né meno degli yogi indiani di tremila anni fa, ma quelli usavano rotolarsi fra le ceneri dei cadaveri per ricordare l'impermanenza, questi sponsorizzano post su facebook. Ed è forse persino più efficace, quanto all'impermanenza.
Che cosa fa, dunque, il filosofo? Cerca con il lanternino qualcosa, imperturbabile. Si tratta ora di capire se sia follia, che lo spinge, mordendogli le terga, o la cecità rispetto all'abisso sul quale appoggia i piedi quasi fosse solido. Eppure, non è questo che sosteniamo. Come si potrebbe accusarlo di follia? In base a quale "senso della realtà", se questa stessa è ormai una figura-limite, un paradosso, terreno di coltura di allucinazioni, ineffabile?
Il trucco c'è, ed è antico, e ve lo svelo proprio adesso, dopo aver messo a difesa di questa semplice verità una serie di frasi che avrebbero dovuto farvi roteare gli occhi e la lingua nella bocca e infine interrompere la lettura - è così che facciamo noi, per le cose importanti, come i punk che osavano dire la verità solo dietro un muro di rumore e bestemmie. La filosofia non l'ha mai promessa, la verità. Chi cerca, arriverà sempre, e solo davanti alla porta, sempre e solo e di nuovo di fronte a quel segno che dice: conosci te stesso. La promessa è quella della frustrazione di un atto ripetuto, e ripetuto, e ripetuto ancora, fino a quando non servirà più il pensiero a compierlo, e allora il pensiero potrà salire di un livello, e considerare come suo oggetto non più l'oggetto dell'azione, ma l'azione stessa e chi la compie. Questo è il balzo cartesiano, la riduzione Husserliana, la scoperta della differenza ontologica, il salto di livello batesoniano, la scoperta spinoziana della sostanza.
(Mi si dirà: fai di tutto lo stesso. Lo ammetto, ma mi giustifico dicendo che non parlo di una cosa, quanto invece di una mossa. Non ascoltare i filosofi, guardali, al contrario di come si fa per i preti. Osservali. Non hanno mai alzato un dito, eppure insegnano il passo che colma i milioni di chilometri. Restano nel luogo dell'eternità attraverso i kalpa. A cosa serve un filosofo? A nulla. Eppure, che cosa significa "servire"? Chiedilo al filosofo, o diventalo di necessità tu stesso.)
Ma allora, si potrebbe chiedere, è ancora possibile questo passo, questo attraversamento? Non è cambiato qualcosa di fondamentale, che lo rende ormai improbabile?
Rispondero sicuro: no. A spregio di ogni insicurezza, e di ogni dichiarazione relativa al "cambiamento dei tempi". I tempi non sono mai cambiati: ogni affermazione in tal senso è il segno di un tradimento, e merita il disprezzo che ogni tradimento suscita.
Ciò di cui parlo, in questo caso, non è ciò che deperisce, non è ciò che può deperire. Quello di cui parlo - e di proposito non ne parlo - non può essere messo a tema. Come si dice in esergo a ogni opera filosofica degna di questo nome, dal Liber Mutus, al Tractatus, allo Zarathustra alla Bibbia: chi ha orecchie per intendere, intenda. Ciò che si può fare, è fare lo stesso che i monaci del monte Wudan, mostrare il movimento affinché sia ripetuto un milione di volte, fino a quando esso penetri nell'osso, fino a quando il suo significato spirituale diventi rivelato - no, non si parla quì della cattiva metafisica dell'ascensione al regno del senza-carne, ma della vera scoperta dell'essere nella carne, del capire il capire, del sentire il sentire.
Ci sarà ovviamente chi capisca, e chi no. Io di questo mi interesso relativamente, solo al punto da rendere il discorso abbastanza criptico da costare fatica. In questo spazio, liscio, lascio scivolare il linguaggio che mi parla. Per fermarsi, raggrumare, stratificarsi, ovvero: per esibire i movimenti, occorre un qualcosa, una piccola increspatura, un grano sul quale possano formarsi gli strati della perla, per così dire. Quindi, ora che è chiaro fino a che punto non ho intenzione di dire la verità - è impossibile, spero almeno di averlo chiarito, così come è impossibile rendere conto fino in fondo di questa impossibilità - potrò parlarvi a cuor leggero di qualunque cosa, d'ora in poi, sperando che cogliate la verità del come, e la verità che è nell'atto stesso, senza fidarvi mai del "cosa": ogni cosa che dico, infatti, d'ora in poi, sarà necessariamente menzogna.

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